Afilorefe #32: In Egitto
Una puntata di viaggio, dove si raccontano tre piccole storie curiose, si esplora la letteratura egiziana contemporanea e si parla anche di Bob Marley.
Ciao, sono Sara, in cielo c’è la luna piena e questa è afilorefe: la newsletter che ogni mese ti porta un mucchietto di libri, parole e storie da gustare con calma (o come piace a te).
Dal 6 gennaio ho inaugurato un nuovo progetto: si chiama Mattone. Ti va di iscriverti?
Durante le vacanze invernali sono stata in Egitto per la prima volta. Il viaggio eccolo qui, a mo’ di lista, perché tutto quello che è stato affolla i miei pensieri in una gran baraonda (chissà se mai si fermerà): la piramide di Chefren con la punta ancora intatta; il volto della Sfinge a cui hanno rubato la barba (sì, davvero); un treno notturno che non ha mai smesso di ondeggiare; gli odori delle spezie e dell’incenso che mi facevan venire voglia di inspirare forte; il tassista che ci ha raccontato tutta la sua vita; il caldo fumo delle tajine (se vi interessa la cucina egiziana, cliccate subito qui); le case tradizionali nubiane; una duna in cui i miei piedi sprofondavano (e io non riuscivo a smettere di guardarli); la vipera cornuta che nei geroglifici sembra un’innocua lumachina; sette nuovi amici (sei persone e un cane); Karnak, i templi, le tombe che portano sulle spalle storie millenarie; i check point, tanti, e la netta sensazione che tutto andrà bene se, perché e finché ti comporterai da turista (ricordiamolo: per chi ci vive e per chi fa certe domande, l’Egitto non è necessariamente un Paese sicuro).
In questa (insolita) puntata
Tre piccole storie curiose (più una) per cominciare
Una domanda inaspettata: cosa c’entra Bob Marley con l’Egitto?
Dove si va in profondità: qualche pensiero sulla letteratura egiziana contemporanea (se sei qui solo per parlare di libri, scorri direttamente verso il fondo)
Tre piccole storie curiose (più una) per cominciare
1. Il grande sciopero di Deir el Medina
Nel cuore del Deserto Occidentale sorge Deir el Medina, la cittadina degli artigiani che costruirono e decorarono le tombe della Valle dei Re e della Valle delle Regine: una “prigione dorata”,
dove in cambio della poca libertà di movimento i lavoratori ottenevano una casa, la possibilità di costruirsi una tomba sulla collina a occidente della città e cibo assicurato tutto l’anno1.
Un giorno qui si tenne il primo sciopero che la Storia ricordi. Lo racconta un papiro che oggi si trova al Museo Egizio di Torino.
2. C’è un obelisco in Place de la Concorde!
L’egittologo Jean-François Champollion (quello che ha decifrato i geroglifici con la Stele di Rosetta, per intenderci) giunse a Luxor nel 1828 e s’innamorò dei due obelischi che sorgevano davanti al tempio di Amon. S’industriò allora a convincere il vicerè d’Egitto Mehemet Ali a donarli alla Francia.
Per trasportarne uno dall’Africa all’Europa, fu costruita una nave apposita, che avrebbe dovuto risalire il Nilo, solcare il Mediterraneo, attraversare l'Oceano Atlantico e infine navigare lungo la Senna fino a Parigi.
A Luxor si scavò un canale di 400 metri per permettere alla nave di avvicinarsi il più possibile all’obelisco. Per salpare, si dovette attendere per mesi la fine della piena del Nilo. Poco dopo, la navigazione fu interrotta da banchi di sabbia che ostruivano la foce del fiume e poi dalle tempeste invernali.
Il monumento raggiunse finalmente Parigi il 23 dicembre del 1832. Quattro anni dopo, l’obelisco di Luxor fu eretto al centro di Place de la Concorde e più di 200.000 cittadinə si riversarono nei dintorni per assistere alle spettacolari operazioni di sollevamento.
Nel 1845 il re Luigi Filippo regalò all'Egitto un orologio di rame in segno di ringraziamento (un orologio per un obelisco? Scelta discutibile, dico io).
3. Sta sorgendo una nuova capitale
Nel deserto, a oltre 45 chilometri dal Cairo, stanno costruendo (dal 2016) una nuova capitale amministrativa: una modernissima metropoli hi-tech fortemente voluta dal presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi per rispondere al problema del sovraffollamento del Cairo.
Un po’ di numeri: al centro della città sorge il grattacielo più alto di tutta l’Africa, con i suoi 396 metri; la moschea più grande (dei 1.200 edifici religiosi previsti) vanta una capienza di 107mila persone e si attesta così come uno dei luoghi di culto più immensi del Medio Oriente, illuminato nientepopodimenoché dal lampadario più pesante al mondo (oltre 22 tonnellate); c’è anche uno stadio che è in grado di accogliere 99mila persone. E un gigantesco parco coprirà un’area due volte più grande di Central Park.
Il costo totale del progetto si aggira intorno ai 58 miliardi di dollari. Una buona idea? Al di là dell’impatto ambientale,
Secondo alcuni esperti, la realizzazione di una nuova capitale da zero rappresenta una spesa esagerata e ingiustificata. "Il problema del Cairo non ha solo a che fare con la crescita incontrollabile della popolazione, ma con l'incapacità delle persone di accedere a mezzi di sussistenza dignitosi nel luogo da cui provengono”, ha detto alla Cnn Nicholas Simcik Arese, architetto ed etnografo dell'Architectural Association di Londra che ha svolto approfondite ricerche sul campo. "C'è un sacco di patrimonio immobiliare esistente al Cairo che è perfettamente realizzabile - ha aggiunto Arese - e se il governo dovesse spendere anche solo una piccola parte di quell'investimento per aiutare le città esistenti a funzionare davvero, penso che la questione del sovraffollamento scomparirebbe molto rapidamente.”2.
4. Hanno spostato Abu Simbel
Negli anni Cinquanta, si cominciò a costruire la diga di Aswan. I templi di Abu Simbel rischiavano di essere sommersi dalle acque e così si decise di… spostarli.
Ve lo raccontavo nella puntata numero 1 di afilorefe (che nostalgia!).
Una domanda inaspettata: cosa c’entra Bob Marley con l’Egitto?
Per tre giorni abbiamo alloggiato in una piccola guesthouse sull’isola di Elefantina: un placido mondo nel bel mezzo delle acque del Nilo, proprio di fronte alla città di Aswan. La maggior parte delle persone, in quest’area, è di origine nubiana.
Il primo giorno, abbiamo incontrato per le strade almeno cinque o sei giovani uomini che portavano i dread. Ci abbiamo fatto caso sì e no, ma dopo essere finiti a mangiare al King Jamaica Cafè, aver notato una serie di barche con la bandiera della Giamaica e essere passati vicino al Bob Marley Moonlight Restaurant, abbiamo cominciato a unire i puntini e a farci qualche domanda: abbiamo scoperto che l’artista è una vera e propria icona nel sud dell’Egitto.
È stato bello trovarsi di fronte a qualcosa di così inatteso e inaspettato. Quando si viaggia, spesso, si cercano conferme di quanto si è letto, studiato e immaginato, oppure si cerca di dare forma a una visione il più possibile uniforme del poco che si riesce a raccogliere, per provare ad afferrare un qualche ordine nelle cose. Ma, hey, le culture e i popoli non sono monoliti: come noi, vivono di mescolanze, intrecci e cose che non quadrano.
Tornata a casa, ho fatto un po’ di ricerche. La cosa più interessante trovata finora è l’articolo di Tala Elissa How Bob Marley Won Nubian Hearts, di cui traduco un pezzo in italiano:
Ahmed Idris, il direttore di un hotel a Gharb Soheil, dichiara con sicurezza: "Non c'è un nubiano a cui non piaccia Bob Marley".
Come molti altri, Zizo [un barcaiolo intervistato dalla giornalista] non capì i testi di Bob quando vi s’imbattè per la prima volta. Il ritmo, la personalità e lo stile di vita furono sufficienti per affascinarlo, ma con il tempo, iniziò a cogliere alcuni temi ricorrenti nelle canzoni, con cui poteva identificarsi, come l'oppressione, la libertà, il ritorno e il senso di straniamento.
I nonni di Zizo erano tra le migliaia di nubiani che furono costretti a trasferirsi più volte dopo che i loro villaggi e le loro isole furono allagati dalla costruzione consecutiva di due dighe. Fu la diga di Aswan, costruita dagli inglesi e completata nel 1902, a forzare le prime ondate migratorie. L'Alta diga, costruita sotto Gamal Abdel Nasser negli anni '60, intensificò il problema, obbligando oltre 50.000 persone ad abbandonare le loro case. Di conseguenza, le persone migrarono al Cairo, ad Alessandria o nel nord di Aswan, perdendo le loro professioni di contadini e pescatori.
Zizo traccia un paragone tra la migrazione dei nubiani e quella dei giamaicani, che furono costretti a spostarsi dall'Africa ai Caraibi a causa della tratta transatlantica degli schiavi.
"Noi nubiani almeno viviamo nello stesso clima, e in più non siamo stati schiavizzati come loro", dice, e mentre i giamaicani sognano di tornare in Africa, i nubiani desiderano ardentemente tornare in una patria sommersa, a pochi chilometri di distanza.
Dove si va in profondità: qualche pensiero sulla letteratura egiziana contemporanea
In un’intervista, la giornalista Susanne Schanda risponde così alla domanda “Questo crescente interesse all’estero, è uno stimolo per gli scrittori egiziani?”
Da un lato sì, dall’altro regna un certo scetticismo. Personalmente considero la letteratura come un sismografo dello stato di una società. Vi sono però scrittori egiziani che non la vedono così. Ritengono che gli europei abusino della letteratura considerandola come un libro di storia e non apprezzandola sufficientemente per il suo valore letterario.
È vero? In effetti, spesso in Italia si parla della letteratura araba come di un termometro politico o come di uno strumento per conoscere le storie dei luoghi, delle culture e delle società da cui proviene.
È chiaro che la letteratura può essere anche questo, ma non deve necessariamente esserlo. Ci approcciamo a questi mondi letterari, forse, con uno sguardo ancora figlio dell’orientalismo: cerchiamo diversità, esotismo; ci aspettiamo tanta tragicità e moltissimo orrore. In questo modo, però, non è che stiamo togliendo dignità a quella che è, prima di ogni altra cosa, letteratura?
Cosa dire, d'altra parte, di fronte a così tanti romanzi di denuncia, scritti da attivistə che dichiarano apertamente che il loro lavoro è (anche, o prima di tutto) manifestazione del proprio impegno civile?
In un altro articolo leggo di una "visione comune a molti autori arabi, per i quali scrivere è un atto politico e il testo letterario è funzionale ad una versione dei fatti diversa da quella ufficiale, autorizzata dai regimi e legittimata dalla storiografia”3.
Forse però dovremmo anche chiederci quanto della letteratura egiziana – e arabofona più in generale – arriva in Italia. Non è che esiste una predilezione (da parte del mercato editoriale e del pubblico) per questa letteratura dai risvolti civili e per figure d’intellettuali che non solo scrivono, ma sono anche al centro del dibattito pubblico? E non è che, di conseguenza, finiamo per trovarci tra le mani la letteratura più impegnata – proprio perché abbiamo sete di vedere quei mondi contestati – mentre quella “leggera” resta non tradotta?
Voi cosa ne pensate?
Sinceramente, tutti questi temi mi interessano molto, ma fatico a trovare una risposta.
Forse quella giusta è tra le righe di Mario Valentini, quando su minima&moralia scrive:
Non si rende giustizia a un autore del livello di Sonallah Ibrahim riducendo la sua opera al mero ruolo di testimonianza della dittatura egiziana e la sua figura a quella di un intellettuale arabo, probabilmente ateo e (chissà se ancora) comunista, oppositore di un regime totalitario. Ibrahim è innanzitutto autore di raffinata ironia, che si legge con molto divertimento, capace di feroce sarcasmo e di numerosi momenti di vera e propria comicità.
I suoi libri, tradotti in Italia ognuno a distanza di circa vent’anni dalla pubblicazione in lingua araba, prima che raccontarci l’opposizione ai regimi militari, ci mettono in contatto con una letteratura interessante, vivace e di notevole spessore. Ed è per questo che vanno letti. Per il puro piacere di leggere. Oltre che per la voglia di conoscere qualcosa di più delle vicende egiziane.
Quindi, per celebrare il puro piacere di leggere e per comprendere meglio l’Egitto, ecco una piccola finestra sulla sua letteratura contemporanea.
Partiamo proprio da Sonallah Ibrahim (1937), protagonista dell'avanguardia narrativa degli anni '60. Ha pubblicato dodici romanzi, di cui solo tre tradotti in italiano. Nel 2003 rifiuta un ingente premio letterario del Ministero della Cultura perché ai suoi occhi il governo egiziano non ha "nessuna credibilità”. Nel 2004 accetta invece il premio Ibn Rushd per la libertà di pensiero. Il suo Le stagioni di Zhat è una magistrale fotografia delle caotiche vie del Cairo, che sa parlare in modo originale – mescolando la narrazione a ritagli di giornale – di regimi autoritari, rivolte ed emancipazione.
Proseguiamo con Nagib Mahfuz (1911-2006), l’unico scrittore di lingua araba ad aver vinto il premio Nobel per la letteratura (nel 1988. Qui un articolo che lo racconta). Ha scritto cose come Karnak Café: un breve romanzo interamente incentrato sulle persecuzioni e sulle torture del regime militare egiziano ai tempi di Nasser. Proprio in questi giorni sto leggendo il suo Vicolo del mortaio, pubblicato nel 1947 e ambientato durante la seconda guerra mondiale, quando l’Egitto è sotto il dominio britannico. Comincia così, con un incipit tanto semplice quanto intenso:
Il tramonto si annunciava e il Vicolo del Mortaio andava coprendosi di un velo bruno, reso ancora più cupo dalle ombre dei muri che lo cingevano da tre lati. Si apriva sulla Sanadiqiyya e poi saliva, in modo irregolare: una bottega, un caffè, un forno. Di fronte ancora una bottega, un bazar e subito la sua breve gloria terminava contro due case a ridosso, entrambe di tre piani.
Non in un vicolo, ma in un condominio, ci porta invece ʿAla al-Aswani (1957), con il romanzo corale Palazzo Yacoubian, che pare sia il libro di narrativa più venduto di tutto il mondo arabofono. L’ho letto per lo più in volo, tornando a casa dopo il viaggio. È un racconto schietto e commovente, in cui s’intrecciano tante storie diverse, fatte di solitudine e disperazione, ma anche di speranza. Mi è piaciuto soprattutto perché ho sviluppato fin da subito una certa antipatia nei confronti di alcuni personaggi, ma uno (a poco a poco) si è illuminato di luci diverse, e io ho finito per provare nei suoi confronti una forte tenerezza. Per me è sempre una magia quando nei libri incontro un personaggio che assomiglia più a una persona – con tutte le sue contraddizioni e le sue sfumature – che a una creatura fatta d’inchiostro e carta.
Ma il primo libro egiziano che ho letto, ormai tanti anni fa, è il romanzo breve Voci (1972) di Sulayman Fayyad (1929-2015): a mio parere, un capolavoro. La storia è ambientata in un villaggio della valle del Nilo, dove si incontrano due culture profondamente diverse. La tensione è palpabile. Di tutto quel che accade non sembrano esserci responsabili, ma solo innocenti: persone impaurite di fronte a quello che non comprendono (dell’Altro e di Sé), incatenate come sono alle loro tradizioni e al loro sguardo, che è al tempo stesso condanna e rifugio.
C’è tanta attenzione ai grandi temi della giustizia sociale, insomma, nelle pagine di questi autori.
Ma veniamo ora alle autrici, e ne parliamo separatamente poiché molte scrittrici egiziane raccontano la loro letteratura distinguendola da quella degli uomini, per rendere conto delle sfide del tutto peculiari che le donne incontrano in questo campo. Come ha spiegato Salwa Bakr (1949) in una sua lezione:
La maggior parte dei critici sono incapaci di differenziare le donne come scrittrici dalle donne come persone. Alcuni ritengono che i racconti di Bakr siano autobiografici, e che un’autrice sia capace solo di scrivere delle proprie esperienze. Molti ritengono che la scrittura delle donne superi i confini della decenza, criticandole per il voler parlare apertamente delle loro preoccupazioni sessuali. La politica della società e la sua posizione sulle donne definisce i confini della libertà di espressione, che in cambio conduce all’auto censura, specialmente con riferimento alla religione, alla politica e al sesso4.
Le narrazioni di Bakr, in risposta a tutto questo, sono popolate di personaggi femminili coraggiosi e anticonformisti. Come quelli della raccolta di racconti La leggenda di Atiya.
Se la protagonista del romanzo di al Sa’dawi è un’archeologa, il personaggio centrale di Atyàf. Fantasmi dell’Egitto e della Palestina, di Radwa Ashour (1946-2014), è Shagar: una studentessa di Storia che decide di conoscere a fondo i drammi che hanno travolto il suo Paese, risvegliando le voci di chi ha dovuto subire ingiustizie e violenze. Ashour è, oltre che scrittrice, docente universitaria e attivista politica, che definisce il suo stile narrativo “una sfida al discorso dominante”:
Sono una donna araba e una cittadina del terzo mondo. Il mio retaggio è, in entrambi i casi, soffocato. Io scrivo in autodifesa e in difesa di coloro con i quali mi identifico o che sono come me.
Io scrivo, lo spazio diventa mio, e smetto di essere un oggetto agìto per trasformarmi in soggetto che agisce5.
Una visione della scrittura simile s’incontra nelle opere di Nawal al-Sa‘dawi (1931-2021) – scrittrice, saggista, psichiatra e militante femminista – genitalmente mutilata da bambina e promessa in sposa a soli 10 anni. Nei suoi scritti denuncia ripetutamente le sopraffazioni fisiche e psicologiche della società patriarcale, e ne affronta coraggiosamente le conseguenze: perde il lavoro; la rivista che ha fondato qualche anno prima viene chiusa; l’arrestano per censura. In Firdaus. Storia di una donna egiziana racconta la storia di una prostituta, condannata a morte per aver ucciso un uomo.
Ancorata al presente più prossimo è infine la voce di Basma Abdel Aziz (1976), detta “la ribelle”: giornalista, psichiatra specializzata nel trattamento di vittime della tortura, artista visiva e attivista per i diritti civili. Nel 2016 è stata nominata dalla rivista Foreign Policy tra i “Leading Global Thinkers”. Il suo esordio, La fila (2018), è un romanzo distopico in cui racconta le contraddizioni del suo Paese e le delusioni post-Primavere arabe.
Substack mi dice che sono “prossima al limite di lunghezza dell’email”, quindi mi fermo qui. Se c’è qualche altro romanzo della letteratura egiziana che ti fa piacere ricordare, parlamene nei commenti. Facciamola diventare una lista collaborativa, dai!
Grazie per aver letto afilorefe.
Per salutarvi, vi lascio una poesia di Radwa Ashour:
Lei guardò nello specchio,
vide un oceano, pescatori
e un cielo ricamato di gabbiani…
Gli diede lo specchio,
lui lo guardò e
vide una cella, un albero spoglio
e il corvo gracchiante
Alla prossima luna nuova,
Sara
Barbara Faenza, Il pane e le rose: i lavoratori di Deir el-Medina, Storica. National Geographic.
Silvia Donnini, Egitto, la nuova (futuristica) capitale amministrativa nel deserto: a che punto siamo, Sky TG24.
Salwa Bakr sulle donne e la letteratura araba, i-LIBRI [Articolo tradotto dall’originale inglese di Elisabeth Jaquette da Diego Manzetti].
che puntata 💣💣💣💣
Grazie cara Sara, che miniera di informazioni, riflessioni, storie interessanti, che spaziono dalla storia all'arte ai costumi spalancando aperture e conoscenze. Davvero davvero tutti i miei complimenti!